domenica 12 dicembre 2010

Sonetto esistenziale

Leggo di spirti vaganti nel mondo
di società che si rendon migliori
e di pensieri avocanti favori
posto che ad essi sia il cosmo facondo.

Ma ciò ch’è quadro giammai muore tondo
sicché non serve che sopra gli altari
si scuotan parole dai sensi non chiari
pur di sembrare più saggio o profondo.

Quel che dovevo già dire all’inizio
l’ho posticipato per fare un po’ scena,
ma la faccenda or vedo ch’è seria:

Così v’esprimo un succinto giudizio:
al fin di lenir la cosmica pena
trombate più spesso, per la miseria.

lunedì 15 novembre 2010

Il necrologio

Mi porto avanti col lavoro. Ho scritto un necrologio per una persona di cui non faccio il nome, per la privacy.



È morto un bischero
Quel Sire d'Arcore
che ricco divenne
con la Fininvèst.

Servi che piangono
scossi nell’intimo;
campane a morto
giù da Mediasèt.

Pria d’esser feretro
lì tra le zoccole
sornione diceva
come al cabarèt:

“Lungi dal carcere
il popolo abbìndolo
con la minaccia
del rosso sovièt;

Leggi m’intralciano?
tosto si emendino!
o le si getti
giù nella tualèt.”

Zitta, Veronica!
Bondi, un bel distico!
ché fosti Yorick
di quell’Amlèt

Eppur, miserrimo
dovrai sopravvivere
altri servendo,
o triste travèt.

E rendilo martire
talquale ‘l suo mentore
che è morto fuggiasco
ad Hammamèt;

Di’ come Previti
corruppe quel giudice
con una tangente
sotto al gilèt!

Fu democratica
la sozza rinascita
che era del piano
di Gelli il targèt?

E con la Cupola?
Forse fu complice?
Il noto stalliere
ne ebbe il placèt?

E i mali economici?
Le tasse? evadiamole!
Lui solo allo stato
tagliava il budgèt.

Certo che un popolo
pronto ad eleggerlo
sempre trovava,
quel maledètt!

Tre lustri furono?
No, più! che diamine!
io per la vergogna
divento bluèt!

Ma ‘l Sire d’Arcore
amava assai fottere
con donne promiscue
dall’alto cachèt

e giovani fossero
a fargli le coccole
tutte ammassate
di Putin nel lètt.

Così nel ridicolo
il livido satiro
morì blaterando
tra quattro soubrètt.

E quindi un brindisi!
È morto quel bischero!
E le campane
che suonino a fèst.


© Elena Tosato 2010

mercoledì 6 ottobre 2010

Gli spacciaparole

Piccolo vademecum contro gli spacciaparole

Sai riconoscere uno spacciaparole?


Uno spacciaparole è un individuo pericoloso, e solitamente anche noioso.

edit: per la definizione puoi vedere qui


Uno spacciaparole tende a essere riconoscibile. Ha un pattern comportamentale abbastanza definito.
Ecco un vademecum per scoprirne le caratteristiche.
Attenzione! Gli spacciaparole sono intorno a noi, e in qualche caso siamo noi (cit.)

1. Usano cinquanta parole per esprimere concetti che ne richiederebbero dieci.
2. ignorano sistematicamente metodi e contenuti di qualsiasi teoria scientifica, e la deridono storpiandola (molto gettonate la teoria dell'evoluzione, i teoremi di Gödel e la meccanica quantistica, nonché il concetto stesso di "teoria scientifica"). Seppur nato in ambito scientifico e tecnico il comportamento può estendersi a tutti i rami dello scibile umano, dalla storia all'economia allo schieramento ottimale della nazionale di calcio: uno spacciaparole non ha bisogno di studiare, egli sa e basta.
3. sono drammaticamente affascinati da tutto ciò che ricordi il misticismo, le filosofie orientali, gli indiani d'america, i maya, l'animismo, etc.
4. quando tornano all'occidente, lo fanno per nominare Heidegger, oppure Wittgenstein, oppure Thomas Kuhn, oppure Feyerabend, oppure Vito Mancuso se sono cattolici. Il tutto solitamente a vanvera.
5. hanno la propensione a inserire almeno una fallacia logica ogni tre proposizioni di senso compiuto, prediligendo il non sequitur, la petitio principii e l'uomo di paglia. Va forte anche l'argumentum ad auctoritatem, ma principalmente con le
auctoritates del punto 4.
6. ostentano un atteggiamento di maturata saggezza: quando esternano proposizioni senza senso o che cozzano con qualsiasi logica, da quella aristotelica a quella fuzzy, ti guardano con sufficienza/fastidio/commiserazione ed eventualmente ti dicono che era un koan. Il relativismo cognitivo, inoltre, si applica a tutte le opinioni tranne la loro. Quella è vera.
7. nonostante il disprezzo epistemologico per la tecnologia, ne fanno largo uso e se ne vantano.
8. utilizzano parole senza specificarne la definizione qualora essa sia ambigua, o storpiandone il senso qualora ciò sia loro conveniente (amano moltissimo termini quali "essere", "essenza", "sostanza", "sapere", "saggezza", "pensiero", "mente", "anima", "spirito"), o riparando sulla teoria del linguaggio, disciplina in cui manifestano idolatria per la semiotica, indifferenza per la sintassi e spregio per la semantica.
9. pur non conoscendo o non capendo alcunché di scienza, sostengono di poter dimostrare che l'utilizzo del metodo scientifico per indagare la realtà è riduttivo, e solo loro hanno la chiave per coglierne l'essenza.

Infine,

10. nessuno spacciaparole ammette di essere uno spacciaparole.

Se il tuo interlocutore possiede od ostenta almeno quattro di queste caratteristiche, il DSM (Dispositivo per Scoprire i Mistificatori) lo classifica come spacciaparole.

Uno spacciaparole avvelena anche te.


(aggiornato nel 2012)

sabato 1 maggio 2010

Sessocialismo reale

Ecco una canzone in settenari ed endecasillabi scritta ai tempi del VI Congresso di Milano del 1948 dal compagno delegato Cirillo Episcopo che si piccò di regolamentare la sessualità secondo le linee di Mosca: il Sessocialismo Reale. 

Il plusvalore dell'atto sessuale visto nell'ottica di una conquista proletaria e della protesta antiborghese


Conviene che i compagni
lo faccian pel Partito:
è previsto nel Piano Quinquennale.
E lei, che non si lagni
se 'l compagno marito
nell'amplesso le legge il Capitale!
Dialettica sessuale:
tosto i due amanti
s'apprestino a gioire
nel Sol dell'Avvenire!
Due passi indietro ed uno avanti
e riescono a finire:
"Ora vengo!" Dibattito a seguire.

mercoledì 21 aprile 2010

Dante in 140 caratteri

Ci si chiede spesso cosa avrebbe detto Dante di tutte le abbreviazioni che si usano con i cellulari...

Ki credea k'io di ciò mi dispiacesse
nn sa ke sempre fu mio gran disio
parlar con la mia donna a piacer mio
scrivendole 1 gentil sms.

Ahi quanto lo vorrei ke rispondesse
d'entro la kiesa intenta a pregar Dio!
Quanto beato, e quanto lieto io
se 'n fianco a quello spirto mi sedesse!

Ma poi k'io nacqui già in 1 Evo antico
della mia donna nn ho ke 'l sorriso
e poiké scienza ancor nn me lo lice

nn ebbi modo d'esser + k'amico
di colei ke mi trasse in Paradiso.
TVTB, mia diletta Beatrice.

giovedì 18 marzo 2010

Le Nuvole

In un bel mattino di primavera un’unica nuvoletta faceva mostra di sé nel cielo limpido. “Ah, che pace, ah che deliziosa giornata” si compiaceva la nuvola, ora stiracchiandosi a cirro, ora raddensadosi come un piccolo cumulo.
La città si stendeva sotto di lei e si svegliava un pezzetto alla volta; si alzavano le serrande dei negozi, i passanti si salutavano andando a lavorare, gli insetti cominciavano a sciamare e brulicare, a seconda che fossero di aria o di terra.

Mentre la nuvola si godeva lo spettacolo, sentendosi a buon diritto signora e padrona del cielo, dal retro di una cucina di un ristorante molto economico si levò una zaffata di odore di frittura: raggrumatosi anch’esso a forma di nuvola, si andò a piazzare accanto alla nostra.
La nuvola originaria poco mancò che avesse un malore. “Santo cielo, povera me” gemette a mezza voce “che tanfo terribile!” E, cercando di non dare troppo nell’occhio, saltò su un refolo di vento e si spostò di qualche metro. Purtroppo per lei, anche la nube di frittura ebbe la stessa idea.

La nuvola, che ora per comodità e per non reare confusioni di forma e di sostanza chiameremo Graziosa, ebbe un altro gemito. Ma, poiché voleva mantenere una parvenza di educazione, si limitò a tossicchiare. Niente da fare: la nube di frittura non dava cenno di aver capito e, anzi, si scuoteva tutta quanta nell’aria, sprizzando ovunque goccioline d’unto.Graziosa starnutì, stavolta in modo più evidente. Poi, d’improvviso, sbottò: “Ma insomma! Che diamine. Le pare il modo?” L’altra la guardò perplessa e, sempre spargendo effluvi, chiese con poco garbo: “Embè? Che succede?”
Graziosa si armò di tutta la pazienza di cui era capace e spiegò, presupponendo che quella fosse un po’ tarda: “Signora, non so se si rende conto, ma qui c’è un odore insopportabile. Il cielo è grande, proprio qui se ne deve stare? Ci sarebbe posto per tutti!”
La nube di frittura ci rimase male e, con malcelato disappunto, abbozzò: “Mi scusi tanto, eh” fece, con un filo di voce che a malapena si distingueva dalla brezza primaverile “è che io vengo da un ristorante dove fanno i fritti e la mattina cominciano a lavorare presto. Mi dispiace se le ho rovinato la giornata”.
Graziosa insistette, non paga: “E non può starsene un po’ più in là?”
L’altra replicò, punta sul vivo: “Queste sono le correnti, i venti, signora, davvero, mi spiace, ma sono leggi fisiche”
Graziosa la fulminò: “Non mi venga a parlare di leggi fisiche e di scienza, Lei! Che ne sa? Mica ha studiato, si vede. Al massimo avrà una qualche infarinatura di chimica applicata. Per l’Atmosfera, senti qua che odoraccio!”
La nube di frittura ebbe un altro sussulto di amor proprio, fece una smorfia e si difese così: “Ha ragione, signora, magari io non ho una gran cultura ma Le faccio presente che, a rigor di logica, no ecco non mi rimproveri di non conoscere nemmeno quella, a rigor di logica siamo nuvole entrambe, condividiamo la medesima nuvolità, e quindi abbiamo gli stessi doveri e gli stessi diritti”

Graziosa si fece scura come un cumulonembo prima di un temporale, ma la sua non era altro che stizza: “Cosa? Cosa? Entrambe nuvole, io e Lei, cara signora? Ma sta dando di matto? Io sono una nuvola, Lei, anzi, Tu sei solo un grumo di tanfo! Una zaffata puzzolente e artificiale che viene da un ristorante di quart’ordine dove si ritrovano a pranzare persone senza gusto! Lo sai, sciagurata, che cosa vuol dire essere Nuvole? Noi Nuvole siamo apparse nella letteratura fin dai tempi di Aristofane! Ci dedicano le canzoni, anche in accoppiata col Messico! Sei forse stata in Messico, tu? suppongo di no, non saprai nemmeno dove si trova. Noi nuvole” continuò a pavoneggiarsi “ispiriamo i poeti assumendo le forme più strane...” “Veramente è un’illusione ottica” provò a interromperla l’altra, ma Graziosa proseguì didascalica “...si chiama pareidolia, sii precisa, e i pittori ci immortalano, ci hai mai viste dipinte da Monet? Credi che si sarebbe mai messo a dipingere una robaccia come te? Ah no, cara mia! E i modi in cui possiamo essere definite dai meteorologi! Perché noi oltre all’arte ci facciamo valere anche nella scienza! Da innocue velature a corpi nuvolosi, cirri, strati, nembi, ecco! noi siamo il sollievo dei viandanti, la metafora delle difficoltà, tu non sei niente, solo il ricordo di un pranzo cattivo!”

Ciò detto, Graziosa si addensò a tal punto che uno scroscio di pioggia la lavò via dal cielo.

La nube di frittura rimase quindi da sola a godersi i placidi venti della primavera. “Sono segni dei tempi” disse fra sé “Ormai sopravvive solo l’aria fritta”.

lunedì 15 marzo 2010

Lettera al Papa!

Alla precipua attenzione di Sua Santità Benedetto XVI.



Eccellentissimo atque Reverendissimo Successore del Principe degli Apostoli,

verghiamo questa umile missiva prostrandoci al cospetto della sacra pantofola e umettandola con labbra indegne per sottoporre al Vostro santissimo giudizio, semper assistito dalla Grazia divina, una questione della massima importanza.

Apprendiamo con soverchia mestizia, o Infallibile Bavariensis ex Cathedra, che la Vostra Weltanschauung stigmatizza la mentalità relativistica ed edonistica latrice, a Vostro dire, di un’insana frenesia che vilmente attanaglia il Creato causando lo sgorgare di copiose lacrime in Gesù bambino, pubescente, adulto, risorto, e nella Sua Divina e Misericordiosa Madre, Turris eburnea et davidica, ora pro nobis, sia Ella in effigie, in carne o in concetto, poco conta, così come poco conta che il Suo figliolo unigenito sia in sostanza o in accidente quando Egli piange e si sacrifica per i nostri peccati, in saecula saeculorum, amen.

Non è nostra intenzione, o Elegantissimo Cappellatore di Ratisbona, metterci a disquisire sulla dottrina biblica e sugli eruditi presupposti che Vi fanno logicamente -vegli il Filosofo, con la Luce della Fede, sul Vostro intelletto- dedurre siffatti anatemi; non ne avremmo la statura morale né tantomeno le capacità dialettiche ed esegetiche, ed incapperemmo in giusti strali e inverecondo sdegno, come avrebbe già fatto notare a suo tempo San Girolamo tacciando di puerilità chi s’accostava al commento della Scrittura senza conoscerne i paradigmi.
Sarebbe come dire, Santissimo Vicario di Gesù Cristo circondato dalla benevolenza di elvetici manipoli, che una persona avulsa dalla carnalità e dalla vita coniugale si impuntasse a discettare di famiglia e di copula, essendo quest’ultima intesa quale attività incline alla lussuria quando non assistita dalla caritas e incanalata nell’alveo del sacro vincolo del matrimonio, e non come predicato nominale. Ciò non è dato, né mai si dia, ed oso ardire di pensare che ne converrete Voi stesso.

Essendoci esclusi per natura dalla discussione sugli attributi divini, ed essendo parimenti stati espunti dal novero dei prescelti per il Cortiletto dei Gentili, poiché molti furono i chiamati, ma pochi gi eletti, è purtuttavia nostra intenzione porre all’attenzione della Vostra magnificenza, o Primate d’Italia, ahi serva, quanto segue.
Quid sum, miser, tunc dicturus? direbbe ora il penitente. Ma noi, sommo pontefice rubrocalzato, andiamo oltre e ci definiamo come i più miseri dei miseri, flammis acribus addicti, confidando che l’Amore di cui Vi fate divulgatore e tramite, in sacerrima joint venture con lo Spirito Santo, ci salvi o quantomeno ci ascolti.
E’ in queste sdrucite vesti che, quali flagellanti sacrileghi, quali ultimi profanatori della sobrietà quaresimale, leviamo un grido in nome di coloro che mai credettero, che mai sperarono nella grazia celeste, e di coloro che, avendovi creduto e avendovi sperato, liberamente decisero di vivere altrimenti la propria esistenza. Altro non chiediamo, o Servo dei Servi di Dio, o valvassino dei Campi Elisi, che tale esistenza non venga vincolata da dettami morali in cui non ci riconosciamo, avendo al più visto nella natura quel che Voi delegate ad un essere perfettissimo e causa prima, e non essendo quindi affatto partecipi di quel che per noi rimane mito o favola indimostrabile, sacra sì per chi vi fa voto ma non passibile di estensione a regola per chi se ne discosta.
Altro non chiediamo, duecentosessantacinquesimo sovrano di uno stato che s’arrocca al di là di un Tevere biondo e sempre più limaccioso e stretto, che Voi e la gerarchia cui siete stato posto a capo, cinque primavere fa, cessiate di impetrare leggi terrene volte ad includere chiunque, regolandone i tempi e gli umori, anche se questo chiunque fosse inoffensivo al prossimo suo e a se stesso.

Demandando ad una lettera successiva le questioni sullo IOR, i benefici fiscali, la copertura dei preti pedofili, l’appoggio a dittatori sanguinari, gli effetti della longa manus dell’Opus Dei, et caetera, devotamente Vi porgiamo i nostri omaggi, intensi come un’antifona di Hildegarda di Bingen mentre attendeva notizie Bernardo di Clairvaux intento a predicare il malicidio, ispirati come un'epistola di Paolo di Tarso mentre squittiva contro le donne e visionari come l’Apocalisse di Giovanni quando precorreva Bergman coi suoi sette sigilli.


15 marzo 2010

Elena Tosato, cittadina italiana.





sabato 13 marzo 2010

Train de vie (un omaggio al Tergeste)

Quando ti metti a parlare di viaggi ne parli sempre al passato. Indicativo imperetto, passato prossimo, passato remoto, qualche volta il presente ma perlopiù si tratta di presente storico. Viaggi reali che punzonano da qualche parte la freccia del tempo. Questo invece è un viaggio ipotetico.

Se fossi stata assunta (congiuntivo trapassato) al mio posto di lavoro a Padova, avrei trascorso (condizionale passato) la primavera scivolando (gerundio presente) su e giù lungo la costa adriatica su un treno notturno. Tergeste, si chiama; è il nome latino della città di Trieste, quella stessa città che nei cartelli sloveni d'oltre confine si fa chiamare TRST, fatto che a me ha sempre ricordato un codice fiscale.
Il Tergeste è un vecchio treno che ogni sera parte da Trieste e rotola giù fino a Lecce, mentre il suo gemello, negli stessi orari, si inerpica dal dolce Salento fino alle raffiche di bora che sferzarono prima Italo Svevo e Umberto Saba e poi Susanna Tamaro, ahimè.
E' sempre pieno. Valige da incastrare sotto le cuccette, cappotti che potrebbero sopperire alla mancanza di coperte, se mai ce ne fosse bisogno. Nell'Intercity notte Tergeste fa sempre un caldo inumano, però. Soprattutto nelle carrozze cuccetta, ben più stipate dei vagoni letto.

Dunque, il vagone letto... vetture classe 1988, c'era ancora il Muro in piedi, locali angusti e scuri il cui odore si è talmente stratificato negli anni che potresti tranquillamente disegnarlo come una carta geografica. Un'intimità ferina col tuo compagno di viaggio, siete due equilibristi che si strusciano e si sfiorano, il treno sussulta, sembra quasi di sentire Gainsbourg cantare; dormite a tratti su queste note sferragliando insieme fino al mattino successivo, in cui un garbato controllore passerà a svegliarvi portandovi il caffé e una copia di Repubblica: edizione di Bari per chi scende, edizione di Bologna per chi sale.
Alle cuccette bisogna dare atto di essere più nuove: nel 1988 gli scompartimenti contavano ancora sei cubicolosi posti letto, scomode cucce a tre piani per parte, brandine di finta pelle marrone e biancheria di carta di riso; ora i posti si sono ridotti a quattro e hanno preso la denominazione "C4 Comfort", per coccolare i passeggeri almeno con le parole. Letti stretti ma lenzuola vere, a sacco, bollite e imbustate ad ogni viaggio, e ciabattine a velo tarate per piedi piccoli. Gli scomparti son divisi per sesso: solo donne, o dormitorio promiscuo. Chi s'incontra, s'incontra. Studenti in trasferta, tanti. Anziani tappezzati di padri pii in viaggio per qualche ospedale del nord. Lavoratori che tornano a trovare le famiglie. Io che mi imbozzolo nel sacco di lenzuola, perché non riesco a dormire bene se devo stare ferma come una salma e quindi tento penosamente di rigirarmi senza cadere giù.

Delle volte ti svegli nel cuore della notte e ti chiedi dove sei. Immagini di essere su uno di quei treni che fanno la fortuna dell'immaginario collettivo: la Transiberiana, l'Orient express senza annesso omicidio, al più la Malle des Indes perché oltre che per passeggeri era un treno postale, e sai che bello essere una lettera in viaggio per il mondo, scritta da chissà chi e in attesa di essere letta; invece sei sul Tergeste ma fa lo stesso, uno non è che deve essere sempre così provinciale. Guardi fuori e se ti va bene vedi un pezzo di mare. A Rimini ci passi mentre fuori è tutto nero, e non ci sono né i gelati né le bandiere della canzone di De André: solo palazzi biancastri e dei pini marittimi. Quando il sonno ti impiastriccia le percezioni non capisci se sei a Pesaro, Ancona, o già in Abruzzo. Tutto uniforme come le vacche notturne di Hegel. Senti solo il treno che ciabatta sui binari; a volte, lo scampanìo di un passaggio a livello, strizzato in tonalità diverse dall'effetto Doppler. Il chiarore del giorno filtra dalle tendine dopo il Po, per chi sale, e dopo Foggia, per chi scende. In mezzo potrebbe esserci qualsiasi cosa, così a me piace pensare che ci sia un viaggio immaginario, uno di quelli in cui non è opportuno usare l'indicativo, ma bisogna invece districarsi in un'alchimia di periodi ipotetici e perifrastiche. Un miscuglio bislacco tra un viaggio e un sogno, da non prendere mai troppo sul serio.

Ecco, se fossi stata assunta (congiuntivo trapassato) avrei trascorso (condizionale passato) parte della mia primavera in questo modo. Non essendo stata assunta (gerundio passato) salirò (indicativo futuro) sul Tergeste un'ultima volta, una delle sere venture, e poi lo lascerò a camminare da solo su e giù per la costa adriatica, senza di me.

domenica 7 marzo 2010

Genesi: Abramo 03

Decreto interpretativo

C’è da dir che il buon Dio, pria di farsi roveto,
quell’unico popolo in suo nome avea designato.
E se il popolo eletto non si fosse presentato?
Sarebbe stato di certo riammesso per decreto.

Troppo Gli premeva che ogni inviso ai Babilonesi
convinto si considerasse una divina creatura.
Ché lui fu sempre uso a farsi leggi a sua misura:
sol che l’interpretazione, qui si dice “esegesi”.



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sabato 6 marzo 2010

Genesi: Abramo 02

La vocazione di Abramo.

“Per te un premio enorme, ma che dico, un jackpot!”
Dio disse ad Abramo “se mi parti per un viaggio:
farò di te un gran popolo, abbi fede e coraggio”
E quello partì, con Sara sua moglie e ‘l nipote Lot.

Dopo un gran pellegrinare, ai piedi fessi le bende,
i tre si ritrovarono a Canaan. “ E qui ci si arresti”
fece il Patriarca, “Senza addurre ulteriori pretesti
costruiamo a Dio un altare e poi leviamo le tende”.



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Genesi: Abramo 01

Poiché il mondo s’era ormai confuso, e quanto,
con la solita saggezza il divino tetragramma
stabilì e mise giusto a punto nel programma
di occuparsi d’ora in poi d’un popolo soltanto.

Dai figli di Sem che sbarcò salvo dall’Arca
Arpacsad, Selach, Eber ... una stirpe intera
che sì, durò per secoli; alla fin della filiera
ora s’andrà a parlare del Primo Patriarca!

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Easy Riders

Da disciplinata zavorra quale ormai sono diventata, confermo l'eterogeneità dei centauri: mancano i seguaci di Chirone, ma per il resto ce n'è per tutti i gusti. L'unico Nesso che li unisce è la patente A.
Domenica scorsa eravamo di ritorno da una gita sul Gargano e, nell'occasione di due soste in diverse aree di servizio, abbiamo incrociato gli sguardi di due diverse tribù. La prima, mediamente più giovane e perfettamente bardata su differenti tipi di moto da corsa, ci ha soppesati e tosto declassati a Lenti Turisti Che Non Chiudono La Gomma perché la tricilindrica di Antonino è equipaggiata di un capiente bauletto per i bagagli - in qualità di zavorra femmina, avrei quantomeno diritto a una cappelliera, ma sobriamente mi adatto.
La seconda tribù, più in là con gli anni e con le pance, era una nobile compagine di piloti di BMW, griffati BMW dai caschi alle mutande. Nel loro sguardo di magnanima sufficienza ho colto tutta l'ineluttabilità delle mie origini plebee, e una vampata di pudore mi ha arrossato le guance sotto il balaclava.
Ci fossero capitati anche i Guzzisti, non so che sarebbe successo. Meno male che la benzina della seconda sosta è stata sufficiente a portarci a casa.

venerdì 5 marzo 2010

Genesi: la Torre di Babele 02

Così, ancora una volta, Dio disse: “eh beh!
‘sti uomini invero si stan montando la testa.
Bisogna ch’io li sorvegli con mente desta,
quant’è vero che (perlopiù) mi chiamo Yahweh.

Sia certa la pena, ch’io son giudice perfetto!
per ogni colpa, dalla massima alla più piccina”
E se a Babele fe’ così, pensate a Messina
quando vedrà i subappalti del ponte sullo stretto.

Genesi: la Torre di Babele 01

Passato che fu il diluvio e ripopolato il mondo
tutti, in Sennaar, parlavan con le stesse parole.
Dissero gl’ uomini: “saliamo al cielo, al sole!
con una torre dal cui capo non si veda il fondo!”

Dio li vide costruire un’opera sì alta e pingue
che invero sbottò: “che razza di arroganti!
mo’ ci penso io: per confonderli tutti quanti
li farò bestemmiare in un coacervo di lingue



martedì 9 febbraio 2010

Genesi: il Diluvio 02

Partì Noè coi suoi tre figli giovani e forti
per riuscire a salvarsi dal grande pantano;
sconsolato fu Cam, con piglio keynesiano
a dir “nel lungo periodo saremo tutti morti”

A lungo navigarono tra i flutti e la bora
cantando al ritmo di pianola e grancassa
tanto che la canzon “come il tempo passa”
Iafet diceva sempre “Sem, suonala ancora”

Noè smaniava: “piove, governo ladro!”
così Dio disse “basta, per ora almeno”.
Fece pur spuntare un bell’arcobaleno
che pose termine all’infinito soqquadro.

Alla fine di quell’universale subbuglio
la barca si posò sull’Ararat, al secco.
Tornò la colomba con l’ulivo nel becco:
era il diciassette del mese di luglio.

venerdì 29 gennaio 2010

"Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire"

Perché sorrido? Mi faccio coraggio
e qui vi parlo di grandi emozioni.
Colpisco di sponda, ed uso Manzoni,
ma non per citare il cinque maggio.

Mi basta un'opera, giuro, una sola
e voi capirete di che sto tacendo;
perciò dico che andiamo escludendo
sia l'Adelchi che il Conte di Carmagnola.

Un poco di enigmi vi siete stancati?
E' un gioco! Ma quello che capita a me
è lieto; e quindi del Manzoni non è
nemmeno In morte di Carlo Imbonati.

Riuscirò a placare le vostre brame
oppure vi lascerò sul chi vive
se dico che il libro che ci descrive
non è La storia della colonna infame?

mercoledì 27 gennaio 2010

Memorie dal sottosuolo

Sentite odore di zolfo?

E’ solo per farmi riconoscere. In realtà io non ho odore. Gli uomini hanno odore; e così gli animali, e il creato intero. Io sono fuoco, e il fuoco non ha odore. Ci sono poi alcuni fatterelli su cui vorrei essere chiaro. E’ pur vero che è il Male, ciò che mi è stato assegnato di pertinenza, ma non creiamo equivoci -del resto non sono io Colui che Crea. La banalità del male, come la chiamate voi, non è cosa mia: è roba vostra. Neanche la stupidità è opera mia. Io ero lì, tutto intento a far del male e a rigare storto, e arriva questa stupidità, e quindi ci sono rimasto come un cretino, perché passi il bene e il male, e le luce e le tenebre e tutte quelle dicotomie statiche o dinamiche che facevano la gioia degli antichi maestri, ma la stupidità? che c’entra? Vi giuro, io non la concepivo nemmeno: e va a finire che l’ho anche ammirata, perché quella sì, è davvero potente, e le viene naturale, non è come me che devo impegnarmi.
Altra cosuccia su di me: il denaro non è il mio sterco. Il mio sterco è... oh che diamine, non è questo il luogo adatto a parlarne: è una storia d’amore, non un trattato sulle deiezioni. E ancora: io faccio il male, io sono il male, ma io non prèdico il male. Non sono un predicatore. Perché io, a differenza dei predicatori, che agiscono per vanità, ho davvero bisogno degli uomini. Senza di voi non esisterei. E poi diciamocelo, ai predicatori mancano amore e leggerezza ed io, se potessi predicare qualcosa, queste due virtù predicherei. Con queste vi travierei, se solo mi fosse concesso di tenerle unite, a me, che sono il Diviso (per mia scelta e dignità, beninteso). E col seme del dubbio, anche, vi travierei... questo dicono che lo abbia già fatto, talvolta, anzi lo faccio spesso, non sempre ma spesso, perché la gente che crede ossequiosamente in fondo è un po’ fastidiosa, no? e anche pericolosa. Potessi predicare, lo farei portandovi rispetto: dal momento che io non mi prostro dinanzi a voi (mi sono mai prostrato, forse?), e pretendo da voi che facciate altrettanto.
Veniamo alle presentazioni, ora, però. Avrete già qualche idea, ma potete chiedermelo senza paura: chi sei tu?

Chi sono io, dite? Io sono l’Angelo Caduto. Beh, non è che sono caduto perché sono inciampato, naturalmente. Sono caduto perché ho preso e me ne sono andato. Dovevate vedere la faccia di quegli altri angeli! Specie l’arcangelo Michele, che non mi poteva soffrire. Solitamente pensate agli angeli come a creature di luce, ma non è così. Anche loro si rabbuiano, infatti. Peggio è quando li raffigurate come creature di piume, sembra di stare in una voliera. Che storia è mai questa? che orrore. A me piace pensare agli angeli come a schiere di teoremi. Serafini? bum, e via di topologia. Cherubini? sotto con l’algebra. Ma questo è quello che piace a me, e si sa che io son Logico e Matematico e, detto per inciso, non ho stretto patti con alcun musicista e non vesto Prada. Comunque spero che vi sarò simpatico. Del resto il diavolo deve essere seducente, altrimenti che diavolo è? Potrei apparirvi sotto le spoglie di una donna bellissima, se vi piacciono le donne bellissime, o di un uomo affascinante, se preferite. Se volete, vi tento in un deserto. Ma che gusto ci sarebbe? Se lo aspettano tutti. Prima regola: mai essere banali. E allora cercherò di sedurvi, come vi avevo accennato poc’anzi, raccontandovi una storia d’amore: proprio di quell’amore e di quella leggerezza che non posso vivere, e non posso predicare, ma che mi godo un sacco a raccontare agli altri. Perché poi, detto tra di noi, ho anche un bel po’ di tempo libero, ultimamente. Che altro mi resta da fare? Mettere lo zampino e dimenticarmi di fare i coperchi? Cercare qualcuno che ne sappia una più di me? ma è una noia mortale, sapete? Così dalla notte dei tempi!
Mi sembra di aver detto tutto, per ora. Posso cominciare la narrazione vera e propria, che è quella che mi preme di più. Ho deciso di chiamare queste mie memorie “La primavera dei quattro giovedì” perché, guarda caso, i quattro fatti più importanti sono capitati proprio in primavera e tutti di giovedì! Non era mica tanto probabile. Direi a spanne che c’era una possibilità su duemilaquattrocentouno, ossia poco più di quattro parti su diecimila. Così mi è sembrato che “La primavera dei quattro giovedì” fosse un titolo appropriato. A dire il vero il quarto giovedì sarà domani, oggi è mercoledì, e la primavera è ancora lunga, prima che finisca bisognerà che aspettiate, ma una sbirciatina in avanti nei Disegni è stata, ahimè, data. Ecco la storia, allora. Cercherò di essere lieve, nonostante a ben vedere sia una storia veramente tragica, come avrete ben modo di rendervi conto voi stessi, che lo so come siete, vi mettete sempre in testa di trovare un senso in ogni cosa, e questo aggiunge tragedia alla tragedia. Io non vi dirò che c’è un senso vero e proprio -non è il mio compito, del resto.

Se ce lo volete mettere, beh, fate pure, a questo punto della mia triste vicenda, non è che conti poi molto.

mercoledì 20 gennaio 2010

Il discorso sul metodo scientifico

Poesia!

Il Discorso Sul Metodo Scientifico

Per il concorso “Scientifico Verso”
si riuniron scienziati alla rinfusa
distolti dal ponzare in stanza chiusa
sulla lagrangiana dell’universo.

“Non credo che sarebbe tempo perso”
l’uno disse, invocando la Musa
“ché nelle Leggi di Natura è infusa
più arte che in un lindo cielo terso”.

E quanto si armarono l’ingegno
quei saggi ed illustrissimi scienziati
buscando informazion dall’entropia!

E tanto vi si misero d’impegno
da trovar rime e motteggi ritmati
compresi nei gruppi di simmetria.

Darwin disse subito, riguardo la tenzone:
“scriviamo dei bei versi, ci sarà selezione”

Temendo Galileo delle censure nuove
si limitò a proporre: “beh, eppur si muove”.

Heisenberg disse che il tutto gli era insulso:
“non so prender posizione, io, così d’impulso”

Einstein assieme a Newton: “avanti, fate i bravi:
siam soliti discutere di cose ben più gravi!”

Il verso perfetto lo avea trovato Eulero:
“e alla i pi greco, più uno, ehi! fa zero”

Ciò dette la stura a un poetare forsennato.
Sopra di tutti Maxwell: sembrava indiavolato.

E giù diagrammi e formule, pur sigle iupàc
in rime e allegorie, e notazione di Diràc!

Versi sui pensieri, di tale intelligenza
che Turing macchinò felice una sentenza.

Versi sulle azioni, tanto che allegramente
proruppe Emmy Noether: “Conservo una corrente!”

Insomma, fu invero un successo indiscusso.
“Che idee” fe’ Gauss “non ne gestisco il flusso”.

“Questione di principio: da questo e quel concetto”
sintetizzò Archimede, “traiamone un sonetto”:

“Ragion ci dette un metodo diverso
che ‘l mito scalza, e ogn’altra scusa
che rende la mente per fede illusa.
Metodo d’ogni dogmatismo avverso!

Pur se talvolta procede all’inverso
dal senso comun, la logica inclusa
con l’esperimento sopporta l’accusa
così che ogni sapere ne è emerso.

A questo metodo si paga pegno
quando s’adegua un modello ai dati
o dir si vuol di massa ed energia.

Egli sol della natura è degno:
per quanti vi si son affacendati
la scienza per se stessa è poesia.”

EDIT: Questa poesia ha vinto il terzo premio al concorso "Poesia Scientifica Charles Darwin" indetto dall'UAAR con il patrocinio dell'Università di Padova e del Comune di Venezia.

venerdì 15 gennaio 2010

Eco di un Eco 2

Nel 2010, ho riadattato la cosa. Un sentito grazie al pregiuato Gazzettiere, cui si debbono l'appellativo di Adustum e di Silvio Papio e il suggerimento di parlare di Marcello Utro Siculo e Borghezio Ululatore.

Innanzitutto, un lipogramma in "o" di presentazione all'Eco.

Salve a te, illustre principe dell'Accademia della Scienza dei Verbi,

a te che hai sembianze, nel termine che ti qualifica all'anagrafe, della Ninfa che Era rese muta. Muta! Tale è la celia della dicitura che ti meriti a causa della tua stirpe natale, per te che sei ineguagliabile nel Dire, te che sei seguace di Euterpe e le altre, che elegante evisceri il semàinein e sei anche esegeta dei sette dì delle avventure di Baskerville e di Melk!
Per celebrare i trentaquattr'anni di una missiva che vergasti in vesti auliche ed antiche per chiarire le tue ambasce al sire delle Indie del West, qui si pensava di riscrivere la lettera, pur se umilmente indegni della tua Musa, quasi afasici per pudicizia innanzi a simili livelli (ci venisse un'ernia all'area cerebrale che presiede l'enigmistica e l'inventiva!)
La si riscrive, sapiente interprete delle Aganippidi, per adeguarne gli intenti ai tempi.
A seguire la leggerai, imprescindibile esteta di Minerva in bustina: abbine cura, e clemenza.



Ad Baracchum Obamam Adustum Pacificum.

A te, Principe e Imperatore, Luce delle Indie Occidentali, Reggitore della Pax Atlantica, al Senato e al Popolo Americano, ave.
Perdonerai se una lettera sul reggimento delle città e dei popoli ti arriva non da un monarca federato, non da un condottiero di eserciti, non da un prefetto della flotta; perdonerai se non ti arriva nemmeno da un custode della koiné ellenistica, da un eco, da un riverbero, da un’entità acusticamente rilevante, da altre amanti di Narciso, niente di niente, poiché pare che gli adepti di quella confraternita di saggi che con tauroboliasti di Mitra, sacerdoti dei Misteri di Iside, ierofanti del Trismegisto, ministri del culto di Baal e di Astarte, secretari di Eleusi, decrittatori della Pizia, pseudoarconti delle Grandi Dionisiache, produttori della Scrittura, triangolatori di Edipo, semiarchi del Desiderio, terapeuti del Terzo Escluso, gnostici della Differenza e omologarchi del Plèroma, costituiscono ancora l'unico prodotto autoctono dei paesi del Mare Interno, già Nostro, siano impegnati in dispute interne; e di tali dispute e intemperie morali, così come del vituperato stato della vita nella tua fidatissima provincia m’accingo, Egemone della Speranza, a farti sommaria menzione.

Da che ti giunse l’ultima relazione sullo stato di cose nel territorio del Ponto Ausonio, divo Marte che affascinò i Vichinghi, molto è cambiato nella stirpe dei Mitridatidi, a tal punto che non solo rimane immota e uguale a se stessa la capacità di resistere ad ogni veleno ma anche, corre voce tra il volgo, quella di riversarlo spargendolo a piene mani sull’incauto avversario, fomentatore di insane gesta, con l’ausilio di appositi poeti di corte: è il caso di Augustus Mintiolinus Arcoreus, e Victor Feltrius Mithrochinius Bufalòfero, e Mauritius Pulchrupetrus Liber e Iulianus Ferrarensis Eubioticus.

Nel nostro regno, la prima venuta di Mitridatidi fu un giorno condotta a rovina e dissipazione da corruzione interna a tal punto da rimanerne decapitata. Uno dei più insigni membri, quel Benedictus Craxis che pure ebbe a pugnare con uno dei tuoi predecessori, sommo Augusto Afro, piagato nel corpo e imbozzacchito nell’animo da uno scroscio di tintinnanti sesterzi fu costretto a riparare nella sua tenuta nell’Africa Proconsolare, ove, pur novello Creso d’oscure fortune, morì infermo. Gioisci, supremo Giudice dei Giudici, Esculapio dei Miseri, perché la carità che s’addice alle cristianissime radici enotrie perdona i colpevoli, li assolve dai loro peccati, intitola loro un cardo, un decumano, un intero graticolato.

Quanto al sardo Berlinguero, non avertene più a dolere: colpito da morbo improvviso mentre arringava la folla in Patavium, anch’egli subì l’opera ineluttabile d’Atropo. Riguardo al contenuto dell’ultima missiva che ti giunse dal Ponto Ausonio, t’informo inoltre che l’onesto sardo ebbe a dichiarare di ritenere opportuno che il regno seguitasse a sottostare al riparo pluviale dell’Alleanza.

Passata quell’epoca, o Cesare che aneli uscir dalle sabbie mesopotamiche, viviamo felici sotto il dominio incontrastato del nostro unico Sire, Eliogabalo Bisluscus Lupanator Pantocratore, artefice di Mediolanum Secundum e di opere immense e sempiterne. Novello esaltator di Messaline, è attorniato da fedeli legati, virginali ancelle e sudditi estatici che l’amano come solo si può amare il figlio celeste, il protettore dei Lari e dei Penati. Anzi, facciamo solo dei Penati, visto che con i Lari ha qualche screzio, sobillati come sono dai paradossali nomati di Res Publica.
Lascia che ti parli, alato Mercurio dei B52, anche del fidato seguito di Silvio Eliogabalo Papio, vetusto mimo dagli ascosi coturni, aruspico di viscere sempre a lui favorevoli, normatore parallelo per se stesso, avulso al seggio di Dike, prossimo pontificatore di Scilla e Cariddi, cui non si può negare nemmeno il titolo di Paracaligulensis, vista la sua propensione a chiamare al senato al suo fianco sodali d'altrettanta stirpe equina, in siffatta specie quella di cui Apuleio da Madaura cantò un aureo esemplare.
Borghezio Ululatore Onagro, tra questi, tonante e fumigante dalla Gallia Belgica, o Calderolio Simplex Porcellumificator coi suoi manipoli di Tunicati virescenti; strenui difensori dell'eburneo cisalpino, strepitano contro i Numidi e i Mauretani, massimamente, ma anche contro Cappadoci, Daci e Traci, alla bisogna, per tacere poi dei cachinni rivolti ai barbari che s'approssimano alle labili frontiere dell'Impero: eppure nulla avrebbero da ridire contro il tuo incarnato, se riconoscessero in te l'augusto tallone sotto il quale il loro Sire auspica umilmente collocarsi.
E ancora Marcello Utro Siculo, mecenate di Eroico Manganico, profondo mediatore delle sorti trinacrie, di cui esalta i ritmi agresti, il bucolico idillio fra la terra e le sue famiglie, anche, e soprattutto, quelle che non esistono.
O Gasparrio Ineffabilis Oculovispo, o Letta Psicopompo, o il recente Antinoo di quell'Adriano, Capezzonio Loquens. Quanto agli antichi dioscuri Finis Subaqueus Cunctatore e Casinio Caltagironico, pur se talora scostanti e critici, non danno cenno di rappresentare un vero pericolo per le sorti del Sire di tutte le Brianze.

Gli eredi dello schiavo sardo, da Prode Cincinnato a Veltro Sedetiam, da Rutellus Quovadis a Bertinozio Cashmirio a Bersanus Ultimocerinus, pur scagliando con bruta meschinità strali di pessimismo e miseria, di Povertà e Bisogno, falcidiando le speranze del popolo, sono, se non oramai usciti dall’arena insanguinata, ridotti a fronteggiarsi oraziocuriazialmente; purtuttavia, l’odio e il livore che esacerbano le loro menti non baciate da Minerva e dal Senno virtuoso armano qualche piccolo Spartaco Balbo, scagliatore di basilicolaterizi contro le imperturbabili e sempre nuove fattezze del divino Pluriamatore Casoriense; per non parlare dei Togati, profanatori della veste che fu del Senato e del cuore pulsante della Giustizia e della Legge. Tenta ancora infatti di smaniare il già procuratore Antonio Petro Catilina. Ma al fine di preservare i meneghini precordi dell’Apollo di Bondi, giammai si nomini il persecutore del Pacificatore d'ogni sisma, questo nefasto sovvertitore della Concordia Ordinum tanto auspicata dall'anziano sacerdote del tempio Napolitanus Cautus, questo congiurato contro la riforma del diritto romano, che in passato fu acerrimo nemico di Ceppalonzio Mutevolis!

Per questo impetro, eccelso e munifico Dardeggiatore d’Afgani, la tua protezione e le tua clemenza nei confronti del proconsole del Ponto, poiché anch’egli, come già ebbero a fare i tuoi predecessori, combatte senza tema, con virilissimo ardore, le profezie dell’Uomo di Treviri e il sordido tramare dei di lui accoliti.
Invitalo, supremo Soggiogator dei Persi, nelle tue stanze come fece fraternamente Arbustus Secundus Grammaticus, Giove dei Pozzi Oleici e imperatore prima della tua venuta, concedendogli l’accoglienza di qualcuno più nobile e più modesto dei soliti Cappagibìo Oltreuralico e Satrapo Libico, giacché l’Europa, questo molle feticcio incarnante la figlia di Agenore rapita dal padre dei Numi fattosi toro, ne spregia i modi, l'essenza e le peculiarità che lo rendono unico tra gli unici. Forse che non siamo stati, per anni, una colonia fedele e attenta? Forse che non abbiamo atteso alle disposizioni capitoline come il più solerte degli schiavi? Forse che non accogliamo, ancora, schiere delle tue legioni, e centinaia di tue daghe, e flotte di tue triremi? Forse che non continuiamo a costruire accampamenti per le tue milizie a ridosso delle nostre città? Perché lo disdegni, re dei giusti e di coloro che furono volenterosi?

Ogni vassallo abbisogna di un re. Senza la tua considerazione, l’unico sovrano che possa piacevolmente spadroneggiare sul Ponto rimane il Germanico Rubrocalzato Enciclicatore. Necessitiamo di padroni migliori.

Vale.

O come si dice qui nel Ponto, Vale Tutto.

(Elena Tosato 2010)

EDIT: il lipogramma è rimasto uguale; invece, la lettera è stata rimaneggiata dal Pregiato Gazzettiere (JG) e la versione a due mani è stata spedita via mail a Umberto Eco. Il quale, a stretto giro di posta, ringrazia per il pastiche e chiosa che, ahinoi, di Lettere dal Ponto bisognerebbe scriverne ancora.
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Eco di un Eco

Nel 1976, sulla prima pagina del Corriere della Sera, apparve il seguente articolo di Umberto Eco.

LETTERA DAL PONTO
Ad Geraldum Fordum Balbulum, Foederatarum Indiarum ad Occasum Vergentium Civitatum Principem. A te, Principe e Imperatore, Luce delle Indie Occidentali, Reggitore della Pax Atlantica, al Senato e al Popolo Americano, Ave.

Perdonerai se una lettera sul reggimento delle città e dei popoli ti arriva non da un monarca federato, non da un condottiere di eserciti, non da un prefetto della flotta, bensì da un custode della koiné ellenistica, adepto di quella confraternita di saggi che con tauroboliasti di Mitra, sacerdoti dei Misteri di Iside, ierofanti del Trismegisto, ministri del culto di Baal e di Astarte, secretari di Eleusi, decrittatori della Pizia, pseudoarconti delle Grandi Dionisiache, produttori della Scrittura, triangolatori di Edipo, semiarchi del Desiderio, terapeuti del Terzo Escluso, gnostici della Differenza e omologarchi del Plèroma, costituiscono ancora l'unico prodotto autoctono dei paesi del Mare Interno, già Nostro.

Ben so, o Figlio di Jupiter I Canaveralense, che quando accedono al Campidoglio, sulle rive del biondo Potomac, i reggitori dei paesi federati dei mari Siculo, Ionico ed Egeo, i membri del Senato e della Domus Alba vanno a gara nel lanciar loro e frizzi e cachinni, costringendoli ai più umili servizi ed avendoli al pari di liberti - che dico - di schiavi; ben so in quale miserrimo conto i tuoi messi, nunzi e legati nelle provincie ausonie, tengano codesti monarchi comperandone i favori e imponendo loro l'acquisto di vecchie e bolse triremi ormai inutili alla Flotta Imperiale, di daghe e giavellotti, loriche e scudi già gettati dalle tue Legioni, in cambio di quei parvula involucra ripieni di scellerati sesterzi di cui essi più non avvertono l'olezzo. E bene so invece con quale deferente rispetto veniamo ricevuti nelle tue terre noi, antichi custodi dei misteri mediterranei, maestri in formule arcane che ancora strappano esclamazioni di deferente stupore - non dico ai tuoi Padri Coscritti, più inclini a traffici e a milizie che non alla decifrazione di papiri e tavolette di cera - ma in ogni caso ai tuoi retori e saggi. Concedimi dunque, o figlio dell'Apollo di Nasa, di porti una questione che molto affligge il mio cuore e la mia mente, dappoiché i tuoi disegni mi risultano oscuri e molto temo per la tua saggezza, oltre che per la nostra salvezza.

Consentimi di dirti cosa accade qui nel Ponto Ausonio, dove da tempo siamo governati dalla dinastia dei Mitridatidi, uomini che onde conservare il potere e sopravvivere ai propri nemici, hanno realizzato con ardue e durissime prove la resistenza a ogni veleno, cosicché né accuse di tradimento, né sospetti di corruzione, né disprezzo dei cittadini, né catastrofe del pubblico consenso, né scoperta tra le loro mani impure di parvula involucra, riescono a turbare le loro viscere.

Ben sai, o Astro tra le stelle e le strisce celesti, che codesti reggitori del Ponto si sono sostenuti al potere grazie alla tua magnanimità, ogni patto accettando, ospitando le tue legioni tra la Rezia e il Norico, le tue triremi a Ercolano, i tuoi nunzi e i tuoi sicofanti nella Capitale, volta a volta atteggiandosi come se il Ponto fosse colonia, regno federato, provincia senatoria, fedelmente ascoltando i consigli dei tuoi inviati e comandanti di legioni. Così fecero a lungo questi vassalli fedelissimi dai nomi che al tuo orecchio suonano come barbarici, e Rumor Filadelfo, e Andreozio Evergete, e Moro Eupatore e Saragazio Filopatore. Fedeli al tuo comando essi hanno consentito alle quadrate legioni della Pax Atlantica di guardare i confini dell'Impero, sotto la spinta insidiosa dei Parti e dei Sarmati, degli Sciti e dei Daci, dando alle tue milizie e alle tue navi la possibilità di sostenere sulle coste amiche della Siria le battaglie di Mosè Monoftalmo contro le orde nubiane, e l'amico re dei Persi contro la pressione infida delle orde armene e della cavalleria nomade del Tigri e dell'Eufrate. E ben capisco come sia per te cosa di gran pregio mantenere il governo del Ponto mentre già le navi della Sarmazia solcano il Mare Libico.
Ora ben tu sai che da tempo, nel nostro regno, orde di schiavi ormai liberti, in gran parte già inclini ad accettare un patto col tuo potere, e persino indulgenti a sacrificare compromissoriamente agli Dei e ai loro sacerdoti, guidati da un rude schiavo sardo, Berlinguero, ritengono sia giunto il momento di sottrarre il governo del regno alla dinastia dei Mitridatidi. Né la plebe vi si opporrebbe, né ormai gran parte dei patrizi, se non fosse che di continuo un liberto germano, da te elevato agli onori di maestro del Palazzo Imperiale, Chisingero, tenacemente vi si oppone, vedendo nella rivolta degli schiavi una maliziosa congiura del Re dei Sarmati.

Non starò a dirti se e come questo sospetto valga una goccia dei tuoi pensieri, o Nettuno degli swimming pools, né voglio porre la mia saggezza a giudice delle tue credenze. Solo ti dico che, se gli schiavi non dovranno accedere al potere, ben ti converrà attenerti ai Mitridatidi che tanto e così eccellentemente ti hanno servito. Come aiutarli tu ben sai, e con doni di copiosi sesterzi e seminando, tramite tuoi sicofanti, disordine e inquietudini nel Ponto, insanguinando nottetempo gli altari,
decapitando le Erme, incendiando i templi di Diana così che si possa pensare che fautori di questi disordini siano i rivoltosi, seguaci di una oscura religione fondata da un Messia di Treviri, un giudeo barbuto che osò ripetere che è più facile che un tornio passi per la memoria di un computer piuttosto che un tuo protetto sieda sulle ginocchia di Giove.

Se dunque tuo presidio rimane il dominio dei Mitridatidi, sia. Ma da non lungo tempo accadono cose che molto mi stupiscono, inquantoché uno dei tuoi senatori, tale Ciurcius, iniziò a svelare misteri sino ad allora conservati nei penetrali del Tempio Capitolino, e da quell'evento sacrilego molti mali ne vennero alla schiatta dei Mitridatidi. E non passa giorno che Tanaxio, già questore alle legioni, riceva una coppa pestifera che lo fa cadere di subita morte, che Guius Polemoniaco riceva un cesto colmo di frutti in cui si cela un aspide che lo morde là ove teneva, in un sacculo di pelle bovina, misteriosa pecunia; che Crociano Talattico debba darsi a rapida fuga inseguito da cani mordaci ispirati da occulte potenze. E non è finita, ché giorno per giorno, e proprio dai tuoi penetrali imperiali, arrivano sempre nuove maledizioni: cosi che, ormai non più difeso dalla lunga consuetudine ai veleni, già barcolla lo stesso Rumor Filadelfo, già tremano e Moro Eupatore e il sinistro Fanfazio Amintoratore, i pugni levando al cielo e domandandosi come mai non sovvenga loro la tua grazia e il tuo favore.

E io ti chiedo, o divino Vulcano Pentagonale, quali sono i tuoi occulti disegni? Tu vuoi il Ponto in tuo controllo, ma disdegni i fedeli dell'Uomo di Treviri e prostri l'un dopo l'altro i Mitridatidi, mentre nel contempo il nummo ausonio più non vale un sospiro del sesterzio imperiale. In chi ancora confidi, a chi ritieni e disegni di volgere il tuo favore? A Pacciardo Repubblicatore, a Destrazio Fucilatore, a Rautazio Bombarolatore, a Fredazio Timeratore, a Henkazio Silenziatore, a Micazio Insabbiatore, a Gavazio Speculatore?

O di nuovo vuoi ridurre il Ponto a colonia sotto il diretto controllo delle tue milizie, al comando di Caio Tizio Volpe?
O gli Dei, scoraggiati dal vederti cosi insensibile a Minerva ti hanno dato preda a Dioniso e ti hanno infuso il dono divino della Mania?

Vorrai credere che, per il tuo incomprensibile disegno, anche i sacerdoti dei misteri mediterranei già tremano per le sorti dell'impero e temono che tu ti candidi ad essere l'ultimo dei Cesari?

Non si dà regno vassallo senza re, non si dà regno federato senza parvenza di un Patto. Oscure e fiammeggianti mi suonano all'orecchio le sinistre profezie dell'Uomo di Treviri, suppliziato (orrore!) dai Sarmati. Che vuoi, signore dell'Afasia? Anche a un Cesare la falce di Crono incombe spietata. Mi tremano le vene e i polsi al pensiero che gli schiavi del Ponto decapitino un giorno le tue statue. Vale.

mercoledì 13 gennaio 2010

Genesi: il Diluvio 01

Dio vide che gli uomini s’erano corrotti.
“Che schifo” sbottò “che lezzo, ch’effluvio!
meglio sarebbe se mandassi un diluvio
per quaranta giorni e per quaranta notti”

Ma prima di ridurre la Terra in fanghiglia
Dio disse a Noè: “Fa’ un’arca di cipresso;
mettici tutti gli animali, uno per sesso
e visto che ci sei, porta pure la famiglia”


martedì 12 gennaio 2010

Genesi: Caino e Abele 03

Con una sfilza d’eredi innumerevoli
la stirpe d’Adamo s’andò perpetrando:
Enos, Kenan, e via enumerando
non importava se malnati o lodevoli;

il tempo scorreva così lemme lemme
tanto ch’essi vissero per secoli interi:
Enoch che con Dio percorse i sentieri
e il suo figlio longevo, Matusalemme.


domenica 10 gennaio 2010

Genesi: Caino e Abele 02

Tosto risvegliato dall’enorme trambusto
delle grida di Abele, Dio corre a vedere.
Caino fa il tonto. “Che mi pigli pel sedere?”
Dio gli sbotta “So chi è stato, bellimbusto!

Oh sciagurato, quanto dovrei ridurti a fette!
Tu adesso te ne andrai ramingo e meschino.
Ma io dico: guai a chi mi tocca Caino!
Da me lo punirò. E quante volte? Sette!”


giovedì 7 gennaio 2010

Genesi: Caino e Abele 01

Cacciati dall’Eden infine, Adamo ed Eva
snocciolarono in serie Caino ed Abele.
Il primo un contadino, e pure pieno di fiele
per il giovin pastore che con Dio s’intendeva.

Un giorno il più grande dice al ragazzo:
“andiamo a fare due passi in campagna!”

Abele si stufa, è lezioso e si lagna
tanto che l’altro l’assale: “t’ammazzo!”


martedì 5 gennaio 2010

Genesi: Il peccato originale 04

Poi si volse al serpente col tono che si deve:
“Te che m’hai sfidato, nell’abisso ti mando.
Senza appello, senz’indulto, a mio comando”
E fu il primo caso, questo, di “processo breve”.

Dio soddisfatto si disse: “bene, ora basta.”
Pose dei cherubini con la spada folgorante
a custodia dell’albero intatto restante
e andò con gli amici a giocare a canasta.

lunedì 4 gennaio 2010

Genesi: Il peccato originale 03

I due mangiarono insieme il frutto proibito:
fecero del male, consigliati dal biscione.
Dio allora disse: “sia la congrua punizione!
or che siete nudi, e l’avete ben capito...

uomo, lavorerai con contratti a progetto,
con pochi diritti e sventurato sorteggio;
donna, a te se possibile andrà pure peggio,
scosciata o col burqa, resterai un oggetto”