mercoledì 15 ottobre 2014

Il fico

A volte mi chiedo come sarebbe svegliarsi una mattina ed essere, che ne so. John Barth. È una metafantasia, perché se fossi John Barth mi sveglierei chiedendomi come sarebbe essere John Barth, che a sua volta si chiederebbe come sarebbe essere John Barth, e via frattaleggiando.
Per cui dico "blaaah", e non voglio più essere John Barth, perché a un certo punto mi stanco del regresso e mi viene fame e devo fare colazione.

(per chi fosse interessato, un sacco di prove di esistenza divina sono formulate allo stesso modo. Agostino non voleva essere John Barth, e nemmeno Benoît Mandelbrot se è per questo, e a un certo punto voleva fare colazione. Quindi Dio esiste.)

Così a volte mi chiedo come sarebbe svegliarsi una mattina ed essere, che ne so.
Jorge Luis Borges.
Questo sì che sarebbe bello. Cioè, magari no. Perché andrei a fare colazione e la mia colazione avrebbe la natura di essere yogurt, e di essere cereali, e di essere tè verde, e di essere mia, e di essere buona, e di essere necessaria, e di essere nutriente, e di essere, e di non non essere, e di essere una, e di non appartenere all'imperatore. Per esempio. È snervante.
Così metto da parte Borges e a volte mi chiedo come sarebbe svegliarsi una mattina ed essere, che ne so. Franz Kafka. Ma mi sembra così assurdo che mi metto a pensare come sarebbe una mattina svegliarsi ed essere, che ne so. Alice Munro. E la mia colazione, che intanto ho quasi finito di mangiare, sarebbe stata interrotta da una digressione su come sono arrivata a fare colazione, e chi ero ieri, e chi ero l'altro ieri, e i frammenti di cereale che ho ancora in bocca diventerebbero frammenti di frasi e dovrei comunque andare a lavarmi i denti.

A volte mi chiedo, dopo essermi lavata i denti, come sarebbe svegliarsi una mattina ed essere, che ne so. Felice dei racconti che scrivo. E questo davvero non lo so, ma siccome tanto li scrivo lo stesso, mi siedo al computer e non mi chiedo più niente.

Qui potete leggere e scaricare Il fico, che è l'ultimo nato.
Il fico (PDF)


Che è volutamente lento e obliquo e comincia così, e poi finisce in un altro modo, ed è tratto da una storia vera, ma anche un po' no, sul lavoro precario e sul ruolo delle promesse nella vita.
Si siede vicino a me con il suo numero in mano. Nessuno oltre a noi ha meno di settant’anni, nella sala d’attesa. La mattina i vecchi vanno dal dottore a raccontare la loro vita in forma di anamnesi, che è come dire che l’arte dell’autobiografia si è ispessita di rimandi fisiologici senza riuscire a mondarsi della superstizione sul proprio stato di salute; e in tutto il dovizioso sciorinare di sintomi comparati, queste persone riescono tuttavia a espletare la loro funzione principale di esseri sociali riuniti in una congrega fortuita ancorché peraltro inscritta nei ritmi atavici della vita di paese: vale a dire creare e distruggere le reputazioni degli assenti con il pretesto di una mitopoiesi un po’ raffazzonata che li vede attorno alle riviste della sala d’attesa del medico così come un tempo avrebbero pettegolato davanti al fuoco tribale o, adducendo pretesti filosofici più alti, nell’agorà della loro Atene.

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