domenica 12 febbraio 2017

Il Segno

Il Segno
(facezia domenicale in memoria di Umberto Eco)

“Ricordati quello che si dice: all’interprete è concessa una particolare autonomia esecutiva, giacché può intervenire anche sulla forma della composizione” mi sussurra Danieli, con la solita faccia arcigna che si ritrova, mentre entriamo nella stanza. Mi ha dovuto convincere con le buone e anche con le cattive, prima che lo seguissi. La penombra è conforme alle aspettative, e così anche l’odore di chiuso. Siamo gli ultimi. Gli altri sono già tutti seduti attorno al tavolino rotondo, apocalittici e integrati, chi con un’aria compassata, chi avvolto nella maschera del sarcasmo e dello scetticismo e però si vede che suda per il disagio. La vecchia - si fa chiamare Rosa, ma che cos’è un nome? in fondo la rosa primigenia esiste solo nel nome - si staglia ossuta, gli occhi simili a pezzi d’opalina insaccati nelle palpebre, la bocca che tira da una parte. Emette un suono gutturale con cui ci fa cenno di sederci. Troviamo posto, Danieli e io, e appoggiamo le mani sul tavolo. “A me sembra una stronzata” sussurro. Danieli si limita a darmi un colpetto col ginocchio.

La vecchia comincia a parlare. La guardo, per quanto l’oscurità me lo permetta - la stanza è debolmente illuminata da candele puzzolenti. È tutto così dozzinale. Libri di Abelardo e San Tommaso si mischiano senza pudore a quadernacci d’astrologia. Nascosta da qualche parte ci dev’essere anche una tavola ouija, so che la vecchia lavora anche con queste chincaglierie. Se la medium è anche il messaggio siamo messi bene, penso, e vorrei anche sospirare ma ho paura che mi sentano.
Gran bel modo per trascorrere l’anniversario di una morte, mi dico. E mi rassegno.

“Ringrazio tutti voi di essere riuniti qui. Riverbero di conoscenza, spirito che vaghi” fa la vecchia. La voce le trema, probabilmente ad arte. “Spirito che vaghi, i tempi sono oscuri: legioni di imbecilli sono uscite dal bar e si sono arrogate diritto di parola sui social, come saggiamente paventavi. I tuoi discepoli brancolano nell’oscurità della tua mancanza, arroccati a una vetusta sintassi, vanamente protesi a decostruire complotti! Sono qui, tutti quanti, in attesa di un segno.” La voce della vecchia vibra come la canna d’un organo morente: “Spirito, dacci un segno!”

E qui cominciano i problemi. 
“Il segno deve essere postulato come entità mediana tra il sistema delle figure e la serie indefinita delle espressioni assertive, interrogative, imperative a cui è destinato” dice Danieli. Sono io, a questo punto, che vorrei assestargli un colpo col ginocchio, ma non faccio in tempo perché dall’altra parte del tavolo - chi sarà? Giacomazzi? non riesco a distinguere - strilla: “Ma del segno conosciamo sempre e soltanto la faccia significante?”
“Parliamo del segno fondato sulle categorie di somiglianza e identità” lo rimbrotta una voce alla mia sinistra. Danieli sta per intervenire di nuovo, ma la vecchia attacca a tremare e, d’imperio, tuba ululando: “Silenzio! Lo spirito non va disturbato. Segni e parole non saranno distinti.” Si schiarisce la voce e ricomincia. “Spirito che vaghi...”
“Ecco appunto, la vaghezza” si lamenta Riva - non può essere che Riva. “La classe dei conseguenti ne risulta volutamente imprecisa.”
“Non tralasciare i nodi metaforici!” sibila qualcuno a lui vicino.
“Io credo che dovremmo partire da un’analisi comparata delle potenzialità della deduzione, dell’induzione e dell’abduzione” e questa è proprio la mia voce, che ascolto come se fosse estranea. Che ci sta succedendo?
La vecchia non si dà per vinta, e performando un’espressione prestabilita, ci intima di concentrarci, se no va tutto a monte. “Spirito...”
E qui cominciamo ad accapigliarci sullo spirito in sé, sull’essenza e la sostanza. “I predicati! I predicati!” Danieli è saltato sul tavolo e si agita come un ossesso.
La vecchia sbotta, maledice perentoria le nostre mutevoli intensioni, si alza e va a farsi un caffè. 


È passato un anno; come siamo soli, mi dico.

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